domenica 23 settembre 2018

Una doppia conferma dell’antagonismo pleiotropico da studi di genomica comparativa




Nel 1957, George Christopher Williams, un professore di biologia della “Stony Brook University” di New York (US), propose la teoria dell’antagonismo pleiotropico dell’invecchiamento (1). Questa teoria (che cerca di spiegare come si sia evoluto l’invecchiamento in natura) prevede, in sintesi, che la selezione naturale agisca in modo da favorire l’accumulo di mutazioni che sono dannose in età avanzata (e che quindi favoriscono l’insorgenza di patologie associate all'età) nel caso in cui queste mutazioni possono favorire la nostra vita in età giovanile. Infatti, un gene che causa la morte un individuo in età giovanile viene subito rimosso dalla selezione naturale perché sarà impedito l’accoppiamento di quell'individuo e la trasmissione di quel gene. Al contrario, una mutazione che causa la morte dell’individuo in età avanzata non viene rimosso dalla selezione naturale e l’individuo potrà riprodursi prima di subirne gli effetti e passarla alle successive generazioni. La selezione naturale agirà in modo da favorire la sua trasmissione alle generazioni successive soprattutto nel caso in cui questo stesso gene determina un vantaggio competitivo in età giovanile. Dopo diverse generazioni, il numero di mutazioni che favorisce l’insorgenza di patologie associate all'invecchiamento può quindi accumularsi in modo considerevole. Un esempio di queste mutazioni possono riguardare varianti genetiche che favoriscono la calcificazione ossea e che possono favorire lo sviluppo e aumentare il successo riproduttivo in età giovanile. Infatti, queste varianti possono contribuire alla calcificazione delle arterie e quindi al processo di arteriosclerosi in età avanzata.

Ci sono diverse altre teorie sull'evoluzione dell’invecchiamento ma, per adesso, fermiamoci su questa perché due recenti lavori sembrano confermare la sua rilevanza, quantomeno nei mammiferi.

Il primo di questi studi è stato effettuato sui primati, incluso l’uomo (2). I ricercatori hanno registrato la longevità (intesa da questo punto in poi come massimo di vita raggiungibile) di 17 specie di primati e le hanno messe in relazione a quelle delle loro rispettive famiglie seguendo l’albero filogenetico (un diagramma che permette di ricavare i rapporti di “parentela” tra le specie, ovvero di identificare quali specie sono più “vicine” tra loro). Da queste relazioni hanno identificato 3 specie che presentavano una longevità che si discostava nettamente (in positivo) da quella della media della rispettiva famiglia.
Nella famiglia degli ominidi, che oltre all'uomo include il gorilla, lo scimpanzé e altre specie, la longevità media è di circa 70 anni. La specie che si discostava in modo anomalo da questa media era l’Homo sapiens (ovvero l’uomo, la cui longevità è di 122 anni). In modo analogo, la Macaca mulatta (longevità 40 anni) e la Macaca fascicularis (longevità 39 anni) erano le specie la cui longevità si discostava in modo anomalo da quella della loro famiglia (famiglia dei cercopitecidi, la cui longevità media è di circa 30 anni). I ricercatori hanno quindi identificato 25 mutazioni che intervengono in tutte e tre queste specie ma non nelle altre specie la cui longevità rientrava nella media della rispettiva famiglia. Tutte queste mutazioni riguardano geni (tra cui alcuni già precedentemente associati all'invecchiamento, quali ATG7, MNT, SUPV3L1) coinvolti nella guarigione dalle ferite, nella coagulazione del sangue e in malattie cardiovascolari. È di rilevanza che questi processi presentano un importante carattere pleiotropico. Ad esempio, una migliore capacità di coagulazione del sangue è utile per guarire in fretta dalle ferite, ma espone anche un rischio più alto di malattie cardiovascolari in età avanzata.
Gli stessi ricercatori, hanno anche studiato quali proteine presentano una frequenza di cambiamenti (una velocità evolutiva) che è correlata con dei tratti caratteristici della longevità (quali ad esempio, la massa corporea, l’età della maturità, la lunghezza della gestazione e l’età dello svezzamento). Anche in questo caso, i geni che mostrano le più alte correlazioni tra la loro velocità evolutiva e i tratti che caratterizzano la longevità sono per la maggior parte coinvolti in processi pleiotropici che riguardavano le capacità di crescita, sviluppo e il sistema cardiovascolare.

In pieno accordo con la teoria dell’antagonismo pleiotropico, la conclusione di questo lavoro è che la selezione naturale può aver mantenuto delle variazioni genetiche che contribuiscono allo sviluppo di malattie cardiovascolari in età avanzata a causa dei loro effetti benefici in età giovanile.

Il secondo lavoro che ho preso in considerazione è stato effettuato su diverse specie di roditori particolarmente longevi (3), inclusa la specie “super longeva” di ratto nota come “talpa nuda” (Heterocephalus glaber), con un approccio simile a quello precedente. Per chi non lo sapesse, la longevità della talpa nuda è di 31 anni e si distanzia enormemente dalla longevità di un comune topo (nonostante un peso corporeo simile), la cui longevità è di circa 4 anni. I geni che in base a questo studio caratterizzano le differenze di longevità nei roditori (tra i quali AMHR2, IMP4, MYBPHL, MPZL2, TACC2 ) appaiono coinvolti nella regolazione dei processi di respirazione cellulare e dell’omeostasi dei metalli, nei sistemi di crescita e sviluppo e nell'infiammazione.  Appare, inoltre, dal presente studio che una maggiore longevità nei roditori può essere attribuita a varianti genetiche che sono contrapposte a quelle che promuovono una migliore efficienza nella crescita e nello sviluppo.

Anche questo lavoro, quindi, sembra confermare la teoria dell’antagonismo pleiotropico, suggerendo che variazioni del genoma che favoriscono crescita e sviluppo in età giovanile possono avere un effetto negativo nel corso dell’invecchiamento.

1- Williams GC (1957) Pleiotropy, Natural Selection, and the Evolution of Senescence. Evolution (N Y) 11:398. doi: 10.2307/2406060

2- Muntané G, Farré X, Rodríguez JA, Pegueroles C, Hughes DA, de Magalhães JP, Gabaldón T, Navarro A. Biological Processes Modulating Longevity across Primates: A Phylogenetic Genome-Phenome Analysis. Mol Biol Evol. 2018 Aug 1;35(8):1990-2004. doi: 10.1093/molbev/msy105.

3- Sahm A, Bens M, Szafranski K, Holtze S, Groth M, Görlach M, Calkhoven C, Müller C, Schwab M, Kraus J, Kestler HA, Cellerino A, Burda H, Hildebrandt T, Dammann P, Platzer M. Long-lived rodents reveal signatures of positive selection in genes associated with lifespan. PLoS Genet. 2018 Mar 23;14(3):e1007272. doi: 10.1371/journal.pgen.1007272. eCollection 2018 Mar.

Nessun commento:

Posta un commento