domenica 30 settembre 2018

Senescenza cellulare e senolitici: evidenze precliniche di un’unica terapia efficace nel contrastare la fragilità e numerose altre patologie associate all'invecchiamento.


La senescenza cellulare non è un banale invecchiamento delle cellule. Piuttosto, si tratta di una particolare tipologia di risposta della cellula, indotta da una condizione di stress critica, che consiste nell'arresto definitivo della proliferazione e nella produzione di una serie di segnali chimici nell'ambiente circostante.

Questa risposta si può attivare a seguito dell’accorciamento dei telomeri (senescenza replicativa), di un aumento eccessivo ma “non-letale” di danni ossidativi (senescenza indotta da stress ossidativo), di un aumento di danni al DNA (senescenza indotta da danni al DNA), di un aumento di espressione di oncogeni (senescenza indotta da oncogeni) e a seguito di altri segnali di cui non mi dilungherò a parlare.

Secondo quanto siamo riusciti a comprendere, la senescenza cellulare serve a proteggerci dai tumori, aiuta la riparazione e lo sviluppo dei tessuti e contrasta alcuni tipi di infezioni. In condizioni normali, le cellule senescenti appaiono per un breve periodo di tempo e poi vengono rapidamente rimosse dal sistema immunitario. Tuttavia, se il numero di cellule senescenti aumenta in modo eccessivo in un tessuto, i segnali biochimici generati da queste cellule compromettono la funzione del tessuto, ne accelerano la degenerazione e possono addirittura favorire l’insorgenza di ulteriori tumori. Questo è il fenomeno che osserviamo durante l’invecchiamento o dopo un trattamento intensivo con chemio- o radio-terapia.

Per poter far fronte a questo problema, si sta cercando di sviluppare dei farmaci che sono in grado di eliminare selettivamente le cellule senescenti dai tessuti. Questi farmaci o composti prendono attualmente il nome di “senolitici”. A fine pagina troverete quelli che, secondo me, sono stati i progressi storici più rilevanti finora nello sviluppo dei senolitici. 

Dopo questa breve introduzione all'argomento, vediamo qual'è il vero "focus" di questo post. 
A fine agosto di quest’anno è uscito un interessante lavoro sul tema “senescenza cellulare e senolitici”, pubblicato sulla prestigiosa rivista “Nature Medicine” dal gruppo di James Kirkland  (Mayo Clinic, Rochester, MN, USA), cui hanno partecipato anche numerose altre Università e Istituti degli USA e UK (1).
In questo lavoro è stato dimostrato che la somministrazione di un senolitico (in tal caso il cocktail di dasatinib e quercetina) effettuata una sola volta ogni due settimane, in topi di 24-27 mesi di età (topi di età paragonabile a un uomo di circa 75 anni), rimuove gli effetti deleteri dell’accumulo di cellule senescenti migliorando la funzionalità fisica, contrastando la fragilità e allungando la vita media degli animali del 36% (per un topo di 24 mesi non trattato la sopravvivenza media è di 140 giorni, mentre i topi trattati con senolitici mostravano una sopravvivenza media di 190 giorni). Al contrario, un trapianto di cellule senescenti nei tessuti di topi riduceva la longevità degli animali, quasi come se avvenisse una specie di accelerazione del processo di invecchiamento.
Ma la cosa più interessante di questo lavoro è che l’aumento di longevità dovuto al senolitico e l’accorciamento di longevità dovuto al trapianto di cellule senescenti non sono riconducibili ad un effetto su una singola patologia associata all'invecchiamento. Piuttosto sembra che tutte le patologie età associate vengano ritardate o accelerate se, rispettivamente, si rimuovono o si aumentano le cellule senescenti nei tessuti. Questi risultati rafforzano quindi l’ipotesi che agendo sui meccanismi fondamentali del processo di invecchiamento (come la senescenza cellulare) tutte le patologie età associate vengono ritardate senza che una di esse sia predominante.

Va tenuto in considerazione che sono necessari ulteriori studi preclinici per confermare e studiare eventuali effetti avversi dei senolitici, soprattutto in previsione di un futuro utilizzo nell'uomo. Sono comunque già in fase sperimentale clinica alcuni senolitici per il trattamento di particolari condizioni (quali le disfunzioni renali croniche) che potranno confermarci o meno se questi trattamenti possono essere sicuri e efficaci nell'uomo o se la strada verso la loro eventuale traslazione all'uomo è ancora molto lunga o addirittura impraticabile.

Breve storia dello sviluppo dei senolitici 

1961 – Leonard Hayflick e Paul Moorhead descrivono per la prima volta il fenomeno della senescenza replicativa (2)
1962-2007 – Tantissime scoperte (troppe per elencarle) su come viene indotta la senescenza cellulare, su ciò che producono le cellule senescenti e ulteriori evidenze dell’accumulo di cellule senescenti nell'invecchiamento e nelle patologie età associate
2008 – Aubrey de Grey e Michael Rae propongono, nel loro libro “Ending Aging”, l’idea di sviluppare composti che possano selettivamente eliminare le cellule senescenti per contrastare l’invecchiamento (3).
2011 – Darren Baker e Jan van Deursen (insieme a numerosi altri collaboratori) forniscono la prima dimostrazione che la rimozione di cellule senescenti (effettuata attraverso la creazione di un topo transgenico portatore di un “gene killer” attivabile solo nelle cellule senescenti) rallenta l’invecchiamento in topi affetti da invecchiamento precoce (4)
2013 – Jan Dorr (insieme a numerosi altri collaboratori) dimostra che è possibile eliminare selettivamente alcuni tipi di cellule senescenti agendo con composti che possono interferire sulle loro specifiche alterazioni metaboliche (5)
2015 – Yi Zhu e James Kikland (insieme a numerosi altri collaboratori) identificano alcuni composti (tra cui il mix di dasatinib e quercetina) in grado di uccidere selettivamente le cellule senescenti e coniano per la prima volte il termine “senolitico” (6)
2016 – Darren Baker e Jan van Deursen (insieme a numerosi altri collaboratori) forniscono la dimostrazione che la rimozione di cellule senescenti (sempre con la tecnica del “gene killer” su topo transgenico) allunga la vita in salute anche in topi normali (7)
2016 – Jianhui Chang e Daohong Zhou (insieme a numerosi altri collaboratori) identificano un nuovo composto con azione senolitica (Navitoclax o ABT-263) che attraverso la rimozione delle cellule senescenti sembra in grado di ringiovanire il comparto delle staminali ematopoietiche (8)
2016 – Bennett Childs, Jan van Deursen e Judith Campisi (insieme a numerosi altri collaboratori), attraverso l’utilizzo di particolari topi transgenici (topi p16-3MR, in cui è possibile visualizzare e rimuovere le cellule senescenti) dimostrano che la senescenza cellulare promuove lo sviluppo e la progressione dell’arteriosclerosi, mentre la rimozione delle cellule senescenti è di beneficio a tutti gli stadi della patologia (9).
2017 – Ok Hee Jeon, Judith Campisi e Jennifer Elisseeff (insieme a numerosi altri collaboratori), attraverso l’utilizzo dei topi p16-3MR, dimostrano che la senescenza cellulare promuove l’artrosi e che la rimozione locale delle cellule senescenti può offrire una nuova opportunità terapeutica per questa patologia (10)
2017 - Mikolaj Ogrodnik, Thomas von Zglinicki e Diana Jurk dimostrano che la senescenza cellulare promuove l’accumulo di grasso epatico e la steatosi associata all'invecchiamento e che la rimozione delle cellule senescenti può offrire una nuova opportunità terapeutica per questa patologia (11)
2017 – L’eliminazione delle cellule senescenti attraverso mezzi genetici o farmacologici aiuta a prevenire l’osteoporosi nel topo (12)
2017 – Allo “Scripps Research Institute” (USA) in collaborazione con la Mayo Clinic (USA) viene identificata una nuova classe di senolitici che agisce inibendo proteine coinvolte nella risposta allo stress (13)
2017 – Un gruppo di ricerca a prevalenza olandese identifica una proteina (FOXO4) che interagendo con il p53 impedisce alle cellule senescenti di andare incontro a morte cellulare. I ricercatori hanno anche sviluppato un peptide (FOXO4-DRI) che attraversa la membrana cellulare e impedisce l’interazione tra FOXO4 e p53 risultando nell'induzione di morte cellulare solo nelle cellule senescenti (14).
2018 – Un gruppo di ricerca giapponese rivela che la senescenza cellulare promuove l’enfisema polmonare e che l’eliminazione delle cellule senescenti protegge i topi da questa patologia (15)
2018 – La dimostrazione che il trattamento con senolitici in età avanzata contrasta la fragilità e allunga la vita media dei topi mentre il trapianto di cellule senescenti ottiene effetti opposti (1).
2018 – Alcuni ricercatori della Mayo Clinic, tra i quali Darren Baker, forniscono la prima evidenza che la rimozione delle cellule senescenti in un modello murino di neurodegenerazione (mediato dall'aggregazione della proteina tau, le cui alterazioni sono coinvolte nell'Alzheimer e numerose altre neuropatologie) riduce la patologia e il declino cognitivo (16).

Referenze
1. Xu M, Pirtskhalava T, Farr JN, Weigand BM, Palmer AK, Weivoda MM, Inman CL, Ogrodnik MB, Hachfeld CM, Fraser DG, Onken JL, Johnson KO, Verzosa GC, Langhi LGP, Weigl M, Giorgadze N, LeBrasseur NK, Miller JD, Jurk D, Singh RJ, Allison DB, Ejima K, Hubbard GB, Ikeno Y, Cubro H, Garovic VD, Hou X, Weroha SJ, Robbins PD, Niedernhofer LJ, Khosla S, Tchkonia T, Kirkland JL. Senolytics improve physical function and increase lifespan in old age. Nat Med. 2018;24:1246-1256. doi: 10.1038/s41591-018-0092-9

2. Hayflick L, Moorhead PSS. The serial cultivation of human diploid cell strains. Exp Cell Res. 1961;25:585–621. doi: 10.1016/0014-4827(61)90192-6

3. De Grey ADNJ, Rae M. Ending aging : the rejuvenation breakthroughs that could reverse human aging in our lifetime. St. Martin’s Griffin 2008.

4. Baker DJ, Wijshake T, Tchkonia T, LeBrasseur NK, Childs BG, van de Sluis B, Kirkland JL, van Deursen JM. Clearance of p16Ink4a-positive senescent cells delays ageing-associated disorders. Nature. 2011 Nov 2;479:232-6. doi: 10.1038/nature10600.

5. Dörr JR, Yu Y, Milanovic M, Beuster G, Zasada C, Däbritz JH, Lisec J, Lenze D, Gerhardt A, Schleicher K, Kratzat S, Purfürst B, Walenta S, Mueller-Klieser W, Gräler M, Hummel M, Keller U, Buck AK, Dörken B, Willmitzer L, Reimann M, Kempa S, Lee S, Schmitt CA. Synthetic lethal metabolic targeting of cellular senescence in cancer therapy. Nature. 2013;501:421-5. doi: 10.1038/nature12437.

6. Zhu Y, Tchkonia T, Pirtskhalava T, Gower AC, Ding H, Giorgadze N, Palmer AK, Ikeno Y, Hubbard GB, Lenburg M, O'Hara SP, LaRusso NF, Miller JD, Roos CM, Verzosa GC, LeBrasseur NK, Wren JD, Farr JN, Khosla S, Stout MB, McGowan SJ, Fuhrmann-Stroissnigg H, Gurkar AU, Zhao J, Colangelo D, Dorronsoro A, Ling YY, Barghouthy AS, Navarro DC, Sano T, Robbins PD, Niedernhofer LJ, Kirkland JL. The Achilles' heel of senescent cells: from transcriptome to senolytic drugs. Aging Cell. 2015;14:644-58.

7. Baker DJ, Childs BG, Durik M, Wijers ME, Sieben CJ, Zhong J, Saltness RA, Jeganathan KB, Verzosa GC3, Pezeshki A, Khazaie K, Miller JD, van Deursen JM. Naturally occurring p16(Ink4a)-positive cells shorten healthy lifespan. Nature. 2016;530:184-9. doi: 10.1038/nature16932.

8. Chang J, Wang Y, Shao L, Laberge RM, Demaria M, Campisi J, Janakiraman K, Sharpless NE, Ding S, Feng W, Luo Y, Wang X1,2, Aykin-Burns N, Krager K, Ponnappan U, Hauer-Jensen M, Meng A, Zhou D. Clearance of senescent cells by ABT263 rejuvenates aged hematopoietic stem cells in mice. Nat Med. 2016;22:78-83. doi: 10.1038/nm.4010.

9. Childs BG, Baker DJ, Wijshake T, Conover CA, Campisi J, van Deursen JM.Science. Senescent intimal foam cells are deleterious at all stages of atherosclerosis. 2016;354:472-477. doi: 10.1126/science.aaf6659

10. Jeon OH, Kim C, Laberge RM, Demaria M, Rathod S, Vasserot AP, Chung JW, Kim DH, Poon Y, David N, Baker DJ, van Deursen JM, Campisi J, Elisseeff JH. Local clearance of senescent cells attenuates the development of post-traumatic osteoarthritis and creates a pro-regenerative environment. Nat Med. 2017;23:775-781. doi: 10.1038/nm.4324.

11. Ogrodnik M, Miwa S, Tchkonia T, Tiniakos D, Wilson CL, Lahat A, Day CP, Burt A, Palmer A, Anstee QM, Grellscheid SN, Hoeijmakers JHJ, Barnhoorn S, Mann DA, Bird TG, Vermeij WP, Kirkland JL, Passos JF, von Zglinicki T, Jurk D. Cellular senescence drives age-dependent hepatic steatosis. Nat Commun. 2017;8:15691.

12. Farr JN, Xu M, Weivoda MM, Monroe DG, Fraser DG, Onken JL, Negley BA, Sfeir JG, Ogrodnik MB, Hachfeld CM, LeBrasseur NK, Drake MT, Pignolo RJ, Pirtskhalava T, Tchkonia T, Oursler MJ, Kirkland JL, Khosla S. Targeting cellular senescence prevents age-related bone loss in mice. Nat Med. 2017;23(9):1072-1079. doi: 10.1038/nm.4385.

13. Fuhrmann-Stroissnigg H, Ling YY, Zhao J, McGowan SJ, Zhu Y, Brooks RW, Grassi D, Gregg SQ, Stripay JL, Dorronsoro A, Corbo L, Tang P, Bukata C, Ring N, Giacca M, Li X, Tchkonia T, Kirkland JL, Niedernhofer LJ, Robbins PD. Identification of HSP90 inhibitors as a novel class of senolytics. Nat Commun. 2017 Sep 4;8(1):422. doi: 10.1038/s41467-017-00314-z.

14. Baar MP, Brandt RMC, Putavet DA, Klein JDD, Derks KWJ, Bourgeois BRM, Stryeck S, Rijksen Y, van Willigenburg H, Feijtel DA, van der Pluijm I, Essers J, van Cappellen WA, van IJcken WF, Houtsmuller AB, Pothof J, de Bruin RWF, Madl T, Hoeijmakers JHJ, Campisi J, de Keizer PLJ. Targeted Apoptosis of Senescent Cells Restores Tissue Homeostasis in Response to Chemotoxicity and Aging. Cell. 2017 Mar 23;169(1):132-147.e16. doi: 10.1016/j.cell.2017.02.031.

15. Mikawa R, Suzuki Y, Baskoro H, Kanayama K, Sugimoto K, Sato T, Sugimoto M. Elimination of p19ARF -expressing cells protects against pulmonary emphysema in mice. Aging Cell. 2018 Oct;17(5):e12827. doi: 10.1111/acel.12827.

16. Bussian TJ, Aziz A, Meyer CF, Swenson BL, van Deursen JM, Baker DJ. Clearance of senescent glial cells prevents tau-dependent pathology and cognitive decline. Nature. 2018 Sep 19. doi: 10.1038/s41586-018-0543-y.

martedì 25 settembre 2018

Nozioni di biologia dell'invecchiamento per tutti (Video)



A disposizione di tutti, 3 video che ho realizzato per spiegare in termini molto semplici le nozioni di base della biologia dell'invecchiamento.


Video 1: La definizione di invecchiamento






Video 2: L'invecchiamento in natura









Video 3: I determinanti di invecchiamento



domenica 23 settembre 2018

Una doppia conferma dell’antagonismo pleiotropico da studi di genomica comparativa




Nel 1957, George Christopher Williams, un professore di biologia della “Stony Brook University” di New York (US), propose la teoria dell’antagonismo pleiotropico dell’invecchiamento (1). Questa teoria (che cerca di spiegare come si sia evoluto l’invecchiamento in natura) prevede, in sintesi, che la selezione naturale agisca in modo da favorire l’accumulo di mutazioni che sono dannose in età avanzata (e che quindi favoriscono l’insorgenza di patologie associate all'età) nel caso in cui queste mutazioni possono favorire la nostra vita in età giovanile. Infatti, un gene che causa la morte un individuo in età giovanile viene subito rimosso dalla selezione naturale perché sarà impedito l’accoppiamento di quell'individuo e la trasmissione di quel gene. Al contrario, una mutazione che causa la morte dell’individuo in età avanzata non viene rimosso dalla selezione naturale e l’individuo potrà riprodursi prima di subirne gli effetti e passarla alle successive generazioni. La selezione naturale agirà in modo da favorire la sua trasmissione alle generazioni successive soprattutto nel caso in cui questo stesso gene determina un vantaggio competitivo in età giovanile. Dopo diverse generazioni, il numero di mutazioni che favorisce l’insorgenza di patologie associate all'invecchiamento può quindi accumularsi in modo considerevole. Un esempio di queste mutazioni possono riguardare varianti genetiche che favoriscono la calcificazione ossea e che possono favorire lo sviluppo e aumentare il successo riproduttivo in età giovanile. Infatti, queste varianti possono contribuire alla calcificazione delle arterie e quindi al processo di arteriosclerosi in età avanzata.

Ci sono diverse altre teorie sull'evoluzione dell’invecchiamento ma, per adesso, fermiamoci su questa perché due recenti lavori sembrano confermare la sua rilevanza, quantomeno nei mammiferi.

Il primo di questi studi è stato effettuato sui primati, incluso l’uomo (2). I ricercatori hanno registrato la longevità (intesa da questo punto in poi come massimo di vita raggiungibile) di 17 specie di primati e le hanno messe in relazione a quelle delle loro rispettive famiglie seguendo l’albero filogenetico (un diagramma che permette di ricavare i rapporti di “parentela” tra le specie, ovvero di identificare quali specie sono più “vicine” tra loro). Da queste relazioni hanno identificato 3 specie che presentavano una longevità che si discostava nettamente (in positivo) da quella della media della rispettiva famiglia.
Nella famiglia degli ominidi, che oltre all'uomo include il gorilla, lo scimpanzé e altre specie, la longevità media è di circa 70 anni. La specie che si discostava in modo anomalo da questa media era l’Homo sapiens (ovvero l’uomo, la cui longevità è di 122 anni). In modo analogo, la Macaca mulatta (longevità 40 anni) e la Macaca fascicularis (longevità 39 anni) erano le specie la cui longevità si discostava in modo anomalo da quella della loro famiglia (famiglia dei cercopitecidi, la cui longevità media è di circa 30 anni). I ricercatori hanno quindi identificato 25 mutazioni che intervengono in tutte e tre queste specie ma non nelle altre specie la cui longevità rientrava nella media della rispettiva famiglia. Tutte queste mutazioni riguardano geni (tra cui alcuni già precedentemente associati all'invecchiamento, quali ATG7, MNT, SUPV3L1) coinvolti nella guarigione dalle ferite, nella coagulazione del sangue e in malattie cardiovascolari. È di rilevanza che questi processi presentano un importante carattere pleiotropico. Ad esempio, una migliore capacità di coagulazione del sangue è utile per guarire in fretta dalle ferite, ma espone anche un rischio più alto di malattie cardiovascolari in età avanzata.
Gli stessi ricercatori, hanno anche studiato quali proteine presentano una frequenza di cambiamenti (una velocità evolutiva) che è correlata con dei tratti caratteristici della longevità (quali ad esempio, la massa corporea, l’età della maturità, la lunghezza della gestazione e l’età dello svezzamento). Anche in questo caso, i geni che mostrano le più alte correlazioni tra la loro velocità evolutiva e i tratti che caratterizzano la longevità sono per la maggior parte coinvolti in processi pleiotropici che riguardavano le capacità di crescita, sviluppo e il sistema cardiovascolare.

In pieno accordo con la teoria dell’antagonismo pleiotropico, la conclusione di questo lavoro è che la selezione naturale può aver mantenuto delle variazioni genetiche che contribuiscono allo sviluppo di malattie cardiovascolari in età avanzata a causa dei loro effetti benefici in età giovanile.

Il secondo lavoro che ho preso in considerazione è stato effettuato su diverse specie di roditori particolarmente longevi (3), inclusa la specie “super longeva” di ratto nota come “talpa nuda” (Heterocephalus glaber), con un approccio simile a quello precedente. Per chi non lo sapesse, la longevità della talpa nuda è di 31 anni e si distanzia enormemente dalla longevità di un comune topo (nonostante un peso corporeo simile), la cui longevità è di circa 4 anni. I geni che in base a questo studio caratterizzano le differenze di longevità nei roditori (tra i quali AMHR2, IMP4, MYBPHL, MPZL2, TACC2 ) appaiono coinvolti nella regolazione dei processi di respirazione cellulare e dell’omeostasi dei metalli, nei sistemi di crescita e sviluppo e nell'infiammazione.  Appare, inoltre, dal presente studio che una maggiore longevità nei roditori può essere attribuita a varianti genetiche che sono contrapposte a quelle che promuovono una migliore efficienza nella crescita e nello sviluppo.

Anche questo lavoro, quindi, sembra confermare la teoria dell’antagonismo pleiotropico, suggerendo che variazioni del genoma che favoriscono crescita e sviluppo in età giovanile possono avere un effetto negativo nel corso dell’invecchiamento.

1- Williams GC (1957) Pleiotropy, Natural Selection, and the Evolution of Senescence. Evolution (N Y) 11:398. doi: 10.2307/2406060

2- Muntané G, Farré X, Rodríguez JA, Pegueroles C, Hughes DA, de Magalhães JP, Gabaldón T, Navarro A. Biological Processes Modulating Longevity across Primates: A Phylogenetic Genome-Phenome Analysis. Mol Biol Evol. 2018 Aug 1;35(8):1990-2004. doi: 10.1093/molbev/msy105.

3- Sahm A, Bens M, Szafranski K, Holtze S, Groth M, Görlach M, Calkhoven C, Müller C, Schwab M, Kraus J, Kestler HA, Cellerino A, Burda H, Hildebrandt T, Dammann P, Platzer M. Long-lived rodents reveal signatures of positive selection in genes associated with lifespan. PLoS Genet. 2018 Mar 23;14(3):e1007272. doi: 10.1371/journal.pgen.1007272. eCollection 2018 Mar.

martedì 18 settembre 2018

Cosa hanno in comune le donne e le femmine di orca, beluga, narvalo e di una specie di globicefalo?



La risposta può essere facilmente dedotta dall’immagine, ma mentre ci pensate vi do un suggerimento……ha chiaramente a che fare con l’invecchiamento.

Ebbene, la cosa che hanno in comune è che sono gli unici esseri viventi che entrano in menopausa con l’avanzare dell’età. Prima dell’uscita di un recentissimo articolo 1 si credeva che solo le orche e forse il globicefalo oltre all'uomo avessero questa caratteristica. Per capire l’eccezionalità della cosa basti pensare che nemmeno i topi, né animali molto vicini all'uomo come le scimmie sembra abbiano sviluppato questa particolare cessazione delle capacità riproduttive in natura. Al contrario, la maggior parte delle specie segue un declino graduale di fertilità con l’avanzare dell’età. Qual è la ragione per cui in queste specie gli individui di sesso femminile riescono ad essere così longevi senza essere fertili?

La risposta a questa domanda non è ancora completa. Tuttavia, secondo la maggior parte dei ricercatori l’evoluzione della menopausa è tipica di specie con un particolare comportamento sociale ed è dovuta a due condizioni che sono ben descritte in un articolo uscito circa 3 anni fa 2.

La prima è che la longevità degli individui di sesso femminile non più in grado di riprodursi conferisca un vantaggio allo sviluppo della prole e quindi alla sopravvivenza della specie. L’esperienza e la conoscenza delle nonne può infatti essere utile per favorire l’educazione e il trasferimento delle conoscenze alla prole. Nel caso specifico delle orche, una nonna può quindi essere molto utile ai propri parenti più giovani conoscendo dove e come procacciarsi il cibo, soprattutto in periodi di crisi. E con una durata media e massima della vita di circa 50 e 90 anni è ragionevole pensare che le nonne orche abbiano acquisito una discreta quantità di conoscenze.

La seconda è che la cessazione della fertilità conferisca anch'essa un vantaggio alla sopravvivenza della specie. Riferendoci alle orche, è abitudine comune che i figli crescano e continuino a vivere con le loro madri e le loro nonne, formando così dei gruppi abbastanza numerosi. Se le femmine restassero fertili per tutti i loro anni di vita è ragionevole ipotizzare che il gruppo rischi di diventare troppo numeroso generando competizioni all'interno di esso per potersi procacciare il cibo.

Se vi vengono dubbi è naturale, come anticipato la risposta alla domanda non è ancora completa. Infatti, ci sono anche altre ipotesi  ma lascio alla vostra curiosità lo stimolo di scoprirle 3-5.

1. Ellis S, Franks DW, Nattrass S, Currie TE, Cant MA, Giles D, Balcomb KC, Croft DP. Analyses of ovarian activity reveal repeated evolution of post-reproductive lifespans in toothed whales. Sci Rep. 2018 Aug 27;8(1):12833. doi: 10.1038/s41598-018-31047-8.

2. Croft DP, Brent LJ, Franks DW, Cant MA. The evolution of prolonged life after reproduction. Trends Ecol Evol. 2015 Jul;30(7):407-16. doi: 10.1016/j.tree.2015.04.011.

3. Peccei JS. A critique of the grandmother hypotheses: old and new. Am J Hum Biol. 2001 Jul-Aug;13(4):434-52. DOI: 10.1002/ajhb.1076.

4. Tuljapurkar SD, Puleston CO, Gurven MD. Why men matter: mating patterns drive evolution of human lifespan. PLoS One. 2007 Aug 29;2(8):e785. DOI: 10.1371/journal.pone.0000785.

5. Morton RA, Stone JR, Singh RS. Mate choice and the origin of menopause. PLoS Comput Biol. 2013;9(6):e1003092. doi: 10.1371/journal.pcbi.1003092.

lunedì 17 settembre 2018

News su invecchiamento e infezioni

L'invecchiamento può essere definito come una diminuzione di vitalità e un aumento di vulnerabilità che si amplifica con il passare del tempo. La vulnerabilità include il rischio di eventi fatali, i quali aumentano esponenzialmente al passare del tempo. Basandosi su questa misura, l'invecchiamento umano sembra aver rallentato negli ultimi 150 anni nella maggior parte delle popolazioni, in coincidenza soprattutto con la diffusione di antibiotici efficaci e di un miglioramento nelle abitudini alimentari. La domanda che si pongono i ricercatori è se l’incremento di longevità e l’apparente rallentamento del processo di invecchiamento sono il risultato di una migliore alimentazione o di un ridotto carico di infezione, o di entrambi.

Tenendo conto dell’impatto delle malattie infettive sulla salute del nostro sistema immunitario e sull’aumento del grado di infiammazione che avviene con l’invecchiamento, è ragionevole ipotizzare che il controllo dei patogeni può avere un ruolo più rilevante della nutrizione. In particolare, parlando di infezioni non bisogna limitarsi a quelle di origine batterica, per cui gli antibiotici possono essere efficaci, ma anche a quelle a carattere virale (quali l’infezione da citomegalovirus) che in certi casi persistono nel nostro organismo contribuendo ad abbassare le difese immunitarie e ad aumentare il grado di infiammazione cronica con l’avanzare dell’età.

Due lavori appena pubblicati sostengo la rilevanza delle infezioni batteriche e virali nell’invecchiamento umano.

Il primo di questi lavori (1) sostiene questo punto di vista analizzando i dati storici della popolazione sarda la quale non ha cambiato notevolmente il proprio stato nutrizionale ma ha usufruito dell’introduzione degli antibiotici. I risultati di questo lavoro indicano che l'uso di antibiotici per il controllo delle malattie infettive ha prodotto un rallentamento dell'invecchiamento, e i dati permettono di comprendere in dettaglio il periodo di qualche decennio nel corso del quale quel rallentamento ha preso piede.

Il secondo lavoro (al quale ho avuto l’onore di contribuire) riguarda la prima osservazione che un virus estremamente comune anche in individui sani, il Torque teno virus (TTV), aumenta la sua prevalenza e il suo carico virale con l’avanzare dell’età. Il lavoro soprattutto dimostra che un aumento del carico virale del TTV è associato ad una più precoce mortalità nella popolazione anziana italiana indipendentemente dalla presenza di infezione da citomegalovirus e ipotizza che l’azione del TTV può essere dovuta alla sua produzione di microRNA circolanti che possono agire indebolendo alcune difese immunitarie (2).

p.s. ricordatevi di scaricare il libro di biogerontologia in fondo al blog.

Referenze:

1. Salinari G, Ruiu G. The effect of disease burden on the speed of aging: an analysis of the Sardinian mortality transition. Genus. 2018;74:9. doi: 10.1186/s41118-018-0028-8.

2. Giacconi R, Maggi F, Macera L, Pistello M, Provinciali M, Giannecchini S, Martelli F, Spezia PG, Mariani E, Galeazzi R, Costarelli L, Iovino L, Galimberti S, Nisi L, Piacenza F, Malavolta M. Torquetenovirus (TTV) load is associated with mortality in Italian elderly subjects. Experimental Gerontology. In press: DOI: 10.1016/j.exger.2018.09.003

giovedì 13 settembre 2018

Disponibile da scaricare un libro scritto dal sottoscritto sulla biogerontologia e i determinanti di invecchiamento. Il libro è indirizzato a studenti con nozioni medio-avanzate di biologia o biomedica.
Questa è la prima versione e spero ce ne saranno altre migliori in futuro. Qualunque feedback è gradito.