mercoledì 26 dicembre 2018

Focus su cancro e invecchiamento: il progresso dell’epigenetica verso la diagnosi dei tumori.

Parlare di cancro in un blog dedicato alla biogerontologia è prima o poi inevitabile. Cancro e invecchiamento sono strettamente interconnessi non solo dal punto di vista epidemiologico (l’incidenza dei tumori aumenta esponenzialmente con l’avanzare dell’età) (1) ma anche dal punto di vista dei meccanismi biologici che li caratterizzano.
Ad esempio, accorciamento dei telomeri e accumulo di cellule senescenti sono due tra i più rilevanti determinanti di invecchiamento. Per quanto ne sappiamo, tutti i tipi di cancro necessitano di attivare un sistema che consente loro di riallungare i telomeri (es. riattivazione della telomerasi o del meccanismo alternativo di allungamento dei telomeri noto col l’acronimo di ALT) e di aggirare la barriera imposta alla proliferazione da parte della senescenza cellulare (2-5).
Un altro aspetto di rilevanza in questo settore è il contributo dell’immunosenescenza alla ridotta sorveglianza dei tumori nell’invecchiamento. Infatti, l’invecchiamento contribuisce al declino del sistema immunitario e quindi ad una ridotta efficienza nella rimozione di cellule che vanno incontro a trasformazioni pericolose per l’organismo (6).
Infine, una particolare analogia emerge dai recenti progressi nel campo dell’epigenetica (di cui abbiamo già discusso nel precedente post). L’invecchiamento è infatti caratterizzato da una serie di alterazioni epigenetiche, in particolare riguardo alla densità e alla distribuzione della metilazione del DNA. In maniera del tutto analoga, anche le cellule cancerose dimostrano una serie di cambiamenti epigenetici caratteristici. Il cancro è una malattia estremamente variabile e differenti tipi di cancro hanno un profilo epigenetico differente. Tuttavia, alcuni di questi cambiamenti sembrano particolarmente comuni in diversi tipi di cancro, in particolare la densità di metilazione risulta globalmente diminuita e aumentata solo in specifiche regioni del DNA (7) (un fenomeno simile, ma apparentemente più marcato, a quello che si osserva con l’invecchiamento).
Un team di ricercatori ha notato che queste alterazioni conferiscono al DNA isolato da cellule cancerose una particolare struttura tridimensionale che ne riduce l’assorbimento in superfici rivestite d’oro (8). Questa caratteristica è stata sufficiente a consentire lo sviluppo di una tecnologia a basso costo che consente di identificare la presenza di cellule cancerose con un’accuratezza del 90% (su 200 campioni testati che includevano casi e controlli).
Tale tecnologia non deve necessariamente essere fatta su biopsie di tumore ma può essere applicabile anche al sangue dei pazienti poiché il DNA proveniente da cellule cancerose può essere rilevato anche nel sangue (9). Infatti, le cellule cancerose che muoiono rilasciano il loro DNA (generalmente in forma di microvescicole) nell’ambiente circostante andando spesso ad arricchire il pool di DNA noto come “circulating free DNA” che è rilevabile nel siero.
Al momento, i ricercatori sono coinvolti in progetti che stanno portando alla commercializzazione della loro scoperta. È altresì probabile che ulteriori studi in questo settore possano portare a migliorare ulteriormente l’accuratezza della metodica e non è escluso che vedremo tali metodi diagnostici, o altri basati sulle alterazioni epigenetiche caratteristiche dei tumori, trasferiti in clinica in un prossimo futuro.

  1. Kamangar F, Dores GM, Anderson WF. Patterns of cancer incidence, mortality, and prevalence across five continents: defining priorities to reduce cancer disparities in different geographic regions of the world. J Clin Oncol. 2006;24:2137-50. DOI: 10.1200/JCO.2005.05.2308
  2. Cesare AJ, Reddel RR. Alternative lengthening of telomeres: models, mechanisms and implications. Nat Rev Genet. 2010;11:319-30. DOI: 10.1038/nrg2763  
  3. Stewart SA, Weinberg RA. Telomeres: cancer to human aging. Annu Rev Cell Dev Biol. 2006;22:531-57. DOI: 10.1146/annurev.cellbio.22.010305.104518
  4. Blasco MA. Telomeres and human disease: ageing, cancer and beyond. Nat Rev Genet. 2005;6:611-22. DOI: 10.1038/nrg1656
  5. Collado M, Blasco MA, Serrano M. Cellular senescence in cancer and aging. Cell. 2007;130:223-33. DOI: 10.1016/j.cell.2007.07.003
  6. Pawelec G. Immunosenescence and cancer. Biogerontology. 2017;18:717-721. DOI: 10.1007/s10522-017-9682-z.
  7. Suzuki MM, Bird A. DNA methylation landscapes: provocative insights from epigenomics. Nat Rev Genet. 2008;9:465-76. DOI: 10.1038/nrg2341.
  8. Sina AA, Carrascosa LG, Liang Z, Grewal YS, Wardiana A, Shiddiky MJA, Gardiner RA, Samaratunga H, Gandhi MK, Scott RJ, Korbie D, Trau M. Epigenetically reprogrammed methylation landscape drives the DNA self-assembly and serves as a universal cancer biomarker. Nat Commun. 2018;9:4915. DOI: 10.1038/s41467-018-07214-w.
  9. Underhill HR, Kitzman JO, Hellwig S, Welker NC, Daza R, Baker DN, Gligorich KM, Rostomily RC, Bronner MP, Shendure J. Fragment Length of Circulating Tumor DNA. PLoS Genet. 2016;12:e1006162. DOI: 10.1371/journal.pgen.1006162.

domenica 2 dicembre 2018

Cosa misurano gli orologi epigenetici?


Le modifiche di metilazione del DNA sono una delle maggiori e meglio caratterizzate alterazioni che intervengono durante il processo di invecchiamento. Le cellule di soggetti giovani presentano un genoma in cui la maggior parte dei siti CpG hanno le citosine in forma metilata. Con l’avanzare dell’età, si osserva una perdita generalizzata di metilazione mentre alcuni specifici loci vanno incontro a ipermetilazione. Tra i geni caratterizzati da un aumento di metilazione con l’invecchiamento, i più noti sono alcuni geni target dei complessi Polycomb (1-3). Al contrario, la perdita di metilazione è più marcata nelle zone di DNA caratterizzate da sequenze ripetute. Dato che gli elementi retrotrasponibili costituiscono la maggior parte delle regioni a sequenze ripetute, la loro perdita di metilazione aumenta la probabilità che avvengano fenomeni di retrotrasposizione con conseguenti inserzioni e instabilità genomica (4). Per maggiori informazioni su questo argomento vi rimando al capitolo 3.3 del mio libro di Biogerontologia (link per download gratuito).
Questi cambiamenti di metilazione del DNA che avvengono con l’invecchiamento sono talmente riproducibili da essere considerati attualmente i migliori candidati per lo sviluppo di biomarcatori di invecchiamento. Sebbene la scoperta di questo orologio epigenetico è relativamente recente (2, 5) (Tab. 1), la sua rilevanza nel campo di ricerche della biogerontologia è stata subito chiara a moltissimi ricercatori, tanto che nel giro di pochi anni abbiamo visto un imponente sviluppo di metodi in grado di rilevare orologi epigenetici con crescente grado di accuratezza nella misurazione dell’età biologica.

Tabella 1. Descrizione di due tra i primi orologi epigenetici che sono stati sviluppati.
Biomarcatore
Metodologia generalmente utilizzata
Tessuto utilizzato
Variabilità della misurazione
Effetto dell’età
Correlazione con l’età cronologica stimata (r)a
Fonte
“Epigenetic Clock” (basato su 353 siti CpG di metilazione)
Illumina DNA methylation array (27K o 450K)
Sangue o altri tessuti
3.6 anni di deviazione mediana assoluta sul calcolo finale dell’età biologica
Aumento dell’indice globale; Aumento per 193 CpG (ipermetilate con l’età) e diminuzione per 160 CpG (ipometilate con l’età)
r = 0.96 ± 3.6 anni (indipendente dal sesso) considerando i dati medi da tutti i tessuti
(Horvath 2013) (Ref. 2) 
“DNA methylation age” (basato su 71 siti CpG di metilazione)
Illumina DNA methylation array (450K)
Sangue o altri tessuti
3.9 anni di deviazione mediana assoluta sul calcolo finale dell’età biologica
Aumento dell’indice globale
r = 0.96 ± 3.9 anni (indipendente dal sesso)
(Hannum et al. 2013) (Ref. 5)

Alcuni orologi epigenetici appaiono particolarmente interessanti in quanto sono indipendenti dal tessuto in cui vengono misurati (2, 6) e quindi non riflettono un diverso stato proliferativo delle cellule nei diversi tessuti.
Inoltre, la differenza tra l’età epigenetica e l’età cronologica, che in teoria dovrebbe riflettere il reale grado di invecchiamento biologico, è associata con l’insorgenza di numerose patologie e condizioni associate all’invecchiamento (7).
Un altro aspetto importante dell’orologio epigenetico è che questo può essere invertito o “resettato” dall’espressione dei fattori di Yamanaka in cellule somatiche adulte (8). N. B. I fattori di Yamanaka, in termini grossolani, sono una serie di fattori che quando opportunamente trasfettati sono in grado di riportare una cellula somatica adulta allo stato staminale.
Questi dati supportano quindi l’idea che l’orologio epigenetico può realmente offrire una misurazione intrinseca dell’età biologica. Ma quale sia la natura di questi cambiamenti non è ancora ben chiaro.
A tal proposito, meritano di essere menzionati tre recenti articoli, il vero focus di questo post, che hanno sicuramente aumentato la nostra capacità di interpretazione del fenomeno biologico che si nasconde dietro l’orologio epigenetico.
Il primo di questi tre lavori, a gennaio di quest’anno aveva messo in luce un paradosso sorprendente. Ovvero, da una analisi dell’orologio epigenetico condotta su circa 10000 individui emergeva che alcune varianti geniche della hTERT (la subunità catalitica della telomerasi, ovvero l’enzima che “riallunga” i telomeri), che erano notoriamente associate ad una lunghezza maggiore dei telomeri, risultavano in un’età epigenetica maggiore (9). In termini molto semplici, i risultati sembravano indicare che individui con telomeri più corti erano “epigeneticamente” più giovani di individui con i telomeri più lunghi. Il dato appariva sorprendente in quanto una minore lunghezza dei telomeri riflette generalmente un grado di senescenza cellulare più rapido e un invecchiamento precoce. Tuttavia, sappiamo bene come i lavori di associazione effettuati sull’uomo siano molto carenti dal punto di vista interpretativo e solo studi più approfonditi su modelli cellulari o animali possono aiutare a comprendere i reali meccanismi.
La spiegazione a questo paradosso è stata fornita, infatti, in un articolo uscito ad ottobre di quest’anno. Attraverso uno studio effettuato su modelli cellulari in cui veniva modulata l’espressione della hTERT (10) si è scoperto che l’orologio epigenetico non misura il grado di senescenza cellulare, anzi appare profondamente distinto dalla senescenza cellulare (rimarcando il fatto altresì noto che la senescenza cellulare non è una misura dell’invecchiamento di una cellula). Infatti, le cellule i cui veniva riattivata l’hTERT continuavano ad “invecchiare” in base all’orologio epigenetico nonostante fosse stata “bypassata” la senescenza cellulare. Per cui, le cellule con telomeri più lunghi possono “invecchiare” più a lungo di cellule con i telomeri corti in cui la senescenza cellulare impedisce loro di continuare a invecchiare. Quello che avviene quindi negli individui con le varianti di hTERT associate ai telomeri più lunghi (9) è semplicemente che le loro cellule possono vivere più a lungo e quindi essere soggette ad un maggior grado di invecchiamento epigenetico.
Infine, merita di essere menzionato un lavoro che ha studiato l’impatto di alcuni noti trattamenti “anti-aging” sull’orologio epigenetico del topo di laboratorio (11). L’orologio epigenetico può essere infatti applicato, con specifici adattamenti, anche ad altri organismi differenti dall’uomo, tra cui il topo.  In questo lavoro, sono stati sviluppati quattro modelli differenti di orologio epigenetico e ciascuno di essi era in grado di fornire una buona stima dell’età degli animali. Tuttavia, solo uno di questi confermava che i topi “dwarf” (un ceppo di topi nani caratterizzato da una vita estremamente longeva) erano più giovani dei rispettivi topi “wild-type” e nessuno di questi ha rilevato un effetto sull’orologio epigenetico del trattamento con rapamicina (che in precedenti studi ha dimostrato un consistente incremento nella lunghezza della vita del topo di laboratorio). Tuttavia, tutti gli orologi epigenetici hanno evidenziato come la restrizione calorica (il più consolidato intervento in grado di aumentare la lunghezza della vita in modelli animali) sia in grado di ritardare l’orologio epigenetico.   
Quest’ultimi risultati suggeriscono che gli orologi epigenetici misurano un qualche fenomeno legato all’invecchiamento (Causa? Oppure conseguenza di un qualche altro tipo di danno?) che appare specifico per ciascun tipo di orologio epigenetico e che non sono probabilmente in grado di sostituirsi attualmente agli outcome più tradizionali (quali sopravvivenza e performance funzionali) negli studi effettuati con interventi mirati a contrastare l’invecchiamento e l’insorgenza delle patologie età associate. Questo sembra tanto valido con il topo tanto quanto potrebbe esserlo nell’uomo. Va tuttavia rilevato che sono in via di sviluppo ulteriori orologi epigenetici che sembrano maggiormente associati agli outcome più importanti in studi di invecchiamento, quali mortalità, cancro, funzionalità fisica e cognitiva. Uno di questi è il recente “DNAm PhenoAge” (12) che appare particolarmente promettente per la sua capacità di associarsi al rischio dei maggiori outcome associati all’età indipendentemente dal tessuto in cui viene misurato.

Referenze
  1. Maegawa S, Hinkal G, Kim HS, et al (2010) Widespread and tissue specific age-related DNA methylation changes in mice. Genome Res 20:332–340. doi: 10.1101/gr.096826.109
  2. Horvath S. DNA methylation age of human tissues and cell types. Genome Biol 2013;14:R115. doi: 10.1186/gb-2013-14-10-r115
  3. Weidner CI, Lin Q, Koch CM, et al (2014) Aging of blood can be tracked by DNA methylation changes at just three CpG sites. Genome Biol 15:R24. doi: 10.1186/gb-2014-15-2-r24
  4. Cardelli M, Giacconi R, Malavolta M, Provinciali M (2016) Endogenous Retroelements in Cellular Senescence and Related Pathogenic Processes: Promising Drug Targets in Age-Related Diseases. Curr Drug Targets 17:416–27
  5. Hannum G, Guinney J, Zhao L, et al (2013) Genome-wide methylation profiles reveal quantitative views of human aging rates. Mol Cell 49:359–67. doi: 10.1016/j.molcel.2012.10.016
  6. Horvath S, Oshima J, Martin GM, Lu AT, Quach A, Cohen H, Felton S, Matsuyama M, Lowe D, Kabacik S, Wilson JG, Reiner AP, Maierhofer A, et al. . Epigenetic clock for skin and blood cells applied to Hutchinson Gilford Progeria Syndrome and ex vivo studies. Aging (Albany NY). 2018; 10:1758–75.
  7. Horvath S, Raj K. DNA methylation-based biomarkers and the epigenetic clock theory of ageing. Nat Rev Genet. 2018; 19:371–84. 10.1038/s41576-018-0004-3
  8. Petkovich DA, Podolskiy DI, Lobanov AV, Lee SG, Miller RA, Gladyshev VN. Using DNA Methylation Profiling to Evaluate Biological Age and Longevity Interventions. Cell Metab. 2017; 25:954–960.e6. 10.1016/j.cmet.2017.03.016
  9. Lu AT, Xue L, Salfati EL, Chen BH, Ferrucci L, Levy D, Joehanes R, Murabito JM, Kiel DP, Tsai PC, Yet I, Bell JT, Mangino M, et al. . GWAS of epigenetic aging rates in blood reveals a critical role for TERT. Nat Commun. 2018; 9:387. 10.1038/s41467-017-02697-5
  10. Kabacik S, Horvath S, Cohen H, Raj K. Epigenetic ageing is distinct from senescence-mediated ageing and is not prevented by telomerase expression. Aging (Albany NY). 2018 Oct 17;10(10):2800-2815. doi: 10.18632/aging.101588.
  11. Thompson MJ, Chwiałkowska K, Rubbi L, Lusis AJ, Davis RC, Srivastava A, Korstanje R, Churchill GA, Horvath S, Pellegrini M. A multi-tissue full lifespan epigenetic clock for mice. Aging (Albany NY). 2018 Oct 21;10(10):2832-2854
  12. Levine ME, Lu AT, Quach A, Chen BH, Assimes TL, Bandinelli S, Hou L, Baccarelli AA, Stewart JD, Li Y, Whitsel EA, Wilson JG, Reiner AP, Aviv A, Lohman K, Liu Y, Ferrucci L, Horvath S. An epigenetic biomarker of aging for lifespan and healthspan. Aging (Albany NY). 2018 Apr 18;10(4):573-591. doi: 10.18632/aging.101414.

domenica 11 novembre 2018

Il numero di neuroni della corteccia cerebrale sembra strettamente correlato alla longevità delle specie




L’idea che il metabolismo specifico (il dispendio di energia per grammo di tessuto e per unità di tempo) giochi un ruolo importante nel determinare la longevità delle differenti specie in natura è abbastanza intuitiva ed è stata oggetto di alcune teorie e studi sull’invecchiamento che in passato hanno riscosso un enorme successo (1). Il metabolismo specifico d’altronde è inversamente legato alla massa corporea di un animale (animali più piccoli hanno quindi un metabolismo basale più accelerato) e questo aiuterebbe a spiegare la relazione esistente tra la massa corporea e la longevità che si osserva tra le differenti specie in natura. In altre parole, le specie con massa corporea più grande vivono generalmente più a lungo delle specie con massa corporea più piccola.
Tuttavia, l’ipotesi che la longevità sia determinata dal metabolismo specifico presenta numerose discrepanze che hanno portato diversi biogerontologi a rifiutare completamente tale teoria (2). La prima discrepanza che si osserva è proprio nella relazione tra peso corporeo e longevità delle specie (questa spiega solo un 20-30% delle differenze in natura, quantomeno basandosi sui coefficienti di correlazione stimati finora). La seconda è che numerosi uccelli vivono molto più a lungo di mammiferi di pari peso corporeo, nonostante i primi abbiano una temperatura corporea mediamente più alta dei secondi (che dovrebbe quindi riflettere un più alto metabolismo specifico). Tanto per fornire un esempio basti pensare al cacatua (un particolare pappagallo - in realtà il nome comprende alcune specie di pappagallo - caratterizzato da un ciuffo sopra la testa) e al ratto. Entrambi pesano circa 300 g, ma il cacatua può raggiungere l’età di 50 anni mentre il ratto non va oltre i 3-4 anni. E sulla base della relazione tra peso corporeo e longevità l’uomo appare una forte eccezione con una longevità di circa 4 volte superiore in base a quanto predetto dalla massa corporea.

Un lavoro pubblicato il mese scorso ha aperto la strada verso una nuova interessante relazione che cerca di spiegare la longevità delle specie.
La neuroscienziata Suzana Herculano-Houzel, già nota per aver trovato un modo per calcolare in modo accurato il numero di neuroni nel cervello dei mammiferi (3), ha trovato una fortissima relazione tra il numero di neuroni della corteccia cerebrale e la longevità delle specie (4). L’analisi è stata condotta su circa 700 specie di vertebrati a sangue caldo (inclusi quindi gli uccelli) e sembra spiegare il 70 % circa delle differenze di longevità tra le specie contro appena il 20-30% che è spiegato dalla massa corporea. Il numero di neuroni nella corteccia cerebrale è correlato inoltre con l’età in cui si raggiunge la maturità sessuale (un altro importante fattore che stabilisce la longevità di una specie) e con la durata della vita dopo il raggiungimento della maturità sessuale. Secondo questa relazione l’uomo non è un’eccezione, e può raggiunge un’età massima (e.g. 120 anni) che come per le altre specie è stabilita sulla base del numero di neuroni della corteccia cerebrale.
Con una semplice formula presentata in questo lavoro si può anche stabilire l’equivalenza di età tra due specie:
Età1 = Età2*(NCx1/NCx2)0.4
[dove i numeri 1 e 2 implicano “specie 1” e “specie 2”].

Quindi i 20 anni di età un uomo (circa 16 miliardi di neuroni nella corteccia cerebrale), corrispondono a 6,6 anni di età un macaco (circa 1 miliardo di neuroni nella corteccia cerebrale), a 5 anni di un cane (circa 500 milioni di neuroni nella corteccia cerebrale) e a 1,6 anni di età di un ratto (circa 30 milioni di neuroni nella corteccia cerebrali).

Una limitazione del presente studio è che non vengono riportate analisi corrette per le relazioni filogenetiche tra le specie. Sebbene sia un argomento dibattuto tra vari ricercatori, le correzioni per l’albero filogenetico (il quale mette in relazione le diverse specie) sono generalmente incluse in studi simili sulla longevità delle specie. Questo aspetto è particolarmente importante perché alcuni organismi che appaiono possedere una longevità simile possono essere in realtà molto lontani l’uno dall’altro nell’albero filogenetico e viceversa.

Siamo comunque sicuri che ulteriori studi approfondiranno questa prima importante pubblicazione sull’argomento, anche perché le implicazioni di tale scoperta sono decisamente importanti nel campo della biogerontologia.

  1. Hofman MA. Metabolism, brain size and longevity in mammals. Quart Rev Biol 1983;58:495-512.
  2. de Magalhães JP, Costa J, Church GM. An analysis of the relationship between metabolism, developmental schedules, and longevity using phylogenetic independent contrasts. J Gerontol A Biol Sci Med Sci 2007;62:149-160.
  3. Herculano-Houzel S. The human brain in numbers: a linearly scaled-up primate brain. Front Hum Neurosci. 2009;9;3:31.
  4. Herculano-Houzel S. Longevity and sexual maturity vary across species with number of cortical neurons, and humans are no exception. J Comp Neurol. 2018 Oct 23. doi: 10.1002/cne.24564.

lunedì 5 novembre 2018

Il nemico che si nasconde nel nostro DNA: nuove evidenze sulla regolazione degli elementi trasponibili nell’invecchiamento


I meccanismi fondamentali dell’invecchiamento sono ancora in parte un mistero. Tuttavia, i danni che subiscono le nostre macromolecole, quali proteine e DNA, sono sicuramente tra i più importanti candidati per comprendere la diminuzione di vitalità e l’aumento di vulnerabilità che caratterizzano l’invecchiamento.
I danni di carattere ossidativo, quali quelli causati dai radicali liberi, non sono l’unica tipologia di danno che può subire il nostro DNA e, recentemente, la possibilità che i radicali liberi possano giocare un ruolo primario nell'invecchiamento è stata messa ampiamente in discussione.
Al contrario, sta assumendo sempre più rilevanza il ruolo che possono assolvere gli elementi trasponibili nell'accumulo di danni associato all'invecchiamento. In genetica si dicono elementi trasponibili (anche chiamati trasposoni) quegli elementi genetici che sono in grado di ''saltare'' (jumping genes) da una localizzazione cromosomica a un'altra. La mobilitazione e successiva inserzione dei trasposoni in una nuova zona del DNA può causare un danno significativo alla cellula. Infatti, l’inserimento può avvenire all'interno di una sequenza di DNA che codifica per una proteina o che ne regola l’espressione causando disfunzioni cellulari o addirittura una trasformazione neoplastica (un processo in seguito al quale una cellula normale si trasforma in una cellula tumorale). Esistono differenti tipi di trasposoni, alcuni creano delle copie di sé stessi che poi migrano in altre zone del DNA (una specie di meccanismo “copia e incolla”) mentre altri non si replicano ma possono “saltare” e migrare direttamente. In entrambi i casi, le conseguenze di un aumento della loro attività possono essere estremamente deleterie per le nostre cellule. La presenza di danni dovuti alla mobilitazione di trasposoni è stata documentata durante l’invecchiamento di numerose specie (1-3).
Si potrebbe pensare che questi elementi siano particolarmente rari nel nostro genoma, ma vi sorprenderà sapere che circa il 45 % del nostro DNA è costituito da elementi trasponibili. Una parte di essi è altresì integrata in funzioni di regolazione di altri geni.
È per questo motivo che le nostre cellule, così come quelle di altri organismi, sono equipaggiate con dei sofisticati sistemi di difesa deputati a tenere sotto controllo e a reprimere l’attività dei trasposoni. Il maggior sistema di difesa contro la mobilitazione dei trasposoni è costituito da piccoli RNA denominati Piwi-interacting (piRNA). I piRNA interagiscono con le proteine Piwi formando dei complessi capaci di silenziare l’espressione dei retrotrasposoni. La maggior parte dei piRNAs sono infatti antisenso alle sequenze di trasposoni, suggerendo che i trasposoni sono il bersaglio dei piRNA. Non è ancora chiaro come i piRNA siano prodotti, ma è certo che la loro biogenesi è diversa da quella sia dei miRNA che dei siRNA.
 Nonostante questo, è noto che l’attività dei trasposoni aumenta con l’invecchiamento e l’accumulo di danni al DNA ad essi associato è stato dimostrato in diverse specie.
Uno dei modelli più importanti in biogerontologia è quello degli insetti sociali (termiti, formiche, vespe e api) perché all’interno della colonia esistono delle grandi disparità in longevità nonostante gli insetti abbiano lo stesso identico genoma. Per esempio, all’interno di un alveare l’ape regina può vivere fino a 5 anni, mentre le api operaie hanno una durata della vita di appena un mese. La più grande differenza si osserva nelle termiti dove gli individui addetti alla riproduzione vivono fino a 30 anni mentre le operaie hanno una vita 10 volte più corta. È proprio in una specie di termiti, Macrotermes bellicosus, che è stata fatta recentemente una scoperta importante per aiutarci a definire il ruolo dei trasposoni nell’invecchiamento (4).  In questa specie la longevità degli individui riproduttori è di 20 anni contro i pochi mesi delle operaie. Poiché i riproduttori e le operaie sono geneticamente identici, la loro differenza in longevità deve essere spiegata attraverso differenze nella espressione dei geni che avviene durante lo sviluppo o la vita adulta. Analizzando l’espressione genica (l’RNA) di questa specie di termite nel corso dell’invecchiamento, Elsner e i suoi colleghi hanno trovato che l’espressione dei trasposoni aumenta in modo considerevole con l’invecchiamento e che questo aumento non avviene negli individui deputati alla riproduzione (re e regine). Ma la cosa più interessante del lavoro è che un meccanismo che agisce per amplificare i piRNA (che come descritto precedentemente sono il maggior meccanismo di repressione della mobilitazione dei trasposoni) è soppresso dall’invecchiamento nelle termiti operaie mentre resta attivo negli individui riproduttori. Tale meccanismo, denominato “sistema di amplificazione ping-pong”, era stato studiato precedentemente solo nelle cellule germinali, mentre i ricercatori coinvolti in questo studio lo hanno esaminato nei tessuti cerebrali di questi insetti.
Questi risultati suggeriscono che la maggiore longevità dei re e delle regine delle termiti Macrotermes bellicosus è dovuta alla loro capacità di reprimere l’espressione dei trasposoni; una capacità che si perde nelle termiti operaie. Va rilevato che questa perdita non è stata osservata in tutti i tipi di operaie di questa specie di termiti. Va inoltre rilevato che non è possibile sapere se questo aumento di attività dei trasposoni sia la causa o la conseguenza di altri fenomeni che avvengono nel corso dell’invecchiamento. Comunque, il lavoro apre nuove prospettive sul ruolo dei trasposoni e dei piRNA nell’invecchiamento. La speranza è anche che a partire da questa scoperta seguiranno altri lavori in differenti tipi di insetti eusociali e soprattutto nei mammiferi con comportamento eusociale, quali la talpa nuda, che sono caratterizzati da un’estrema longevità (circa 30 anni) nonostante il loro peso corporeo sia comparabile a quello di un topo (la cui longevità è di 2-4 anni).
E non finisce qui.
Alcune recentissime scoperte riguardano il ruolo dei trasposoni nell’Alzheimer e in altre patologie neurodegenerative. Due recentissimi lavori (5, 6) hanno infatti esaminato la relazione tra l’espressione della proteina Tau (la cui iperfosforilazione è strettamente associata alla malattia di Alzheimer) e l’attività dei trasposoni in alcuni modelli di neurodegenerazione derivati dal moscerino della frutta (Drosophila Melanogaster) e in cervelli post-mortem di individui affetti da morbo di Alzheimer. Ebbene, entrambi gli studi concludono che un anormale espressione di proteina Tau nei modelli di Drosophila è capace di attivare i trasposoni, probabilmente attraverso la de-condensazione della cromatina e la soppressione di piwi e piRNA.  Questo meccanismo, che appare conservato anche dall’osservazione dei tessuti cerebrali umani, determina quindi un incremento dell’instabilità genomica nelle regioni affette dalla patologia e potrebbe essere alla base della morte neuronale e della neurodegenerazione che caratterizza la patologia.


  1.     De Cecco M, Criscione SW, Peterson AL, Neretti N, Sedivy JM, Kreiling JA. Transposable elements become active and mobile in the genomes of aging mammalian somatic tissues. Aging (Albany NY). 2013;5:867–883.
  2.     Chen H, Zheng X, Xiao D, Zheng Y. Age-associated de-repression of retrotransposons in the Drosophila fat body, its potential cause and consequence. Aging Cell. 2016;15:542–552.
  3.      Maxwell PH, Burhans WC, Curcio MJ. Retrotransposition is associated with genome instability during chronological aging. Proc Natl Acad Sci USA. 2011;108:20376–20381
  4.    Elsner D, Meusemann K, Korb J. Longevity and transposon defense, the case of termite reproductives. Proc Natl Acad Sci U S A. 2018;115(21):5504-5509. doi: 10.1073/pnas.1804046115.
  5.     Guo C, Jeong HH, Hsieh YC, Klein HU, Bennett DA, De Jager PL, Liu Z, Shulman JM. Tau Activates Transposable Elements in Alzheimer's Disease. Cell Rep. 2018;23(10):2874-2880. doi: 10.1016/j.celrep.2018.05.004.
  6.    Sun W, Samimi H, Gamez M, Zare H, Frost B. Pathogenic tau-induced piRNA depletion promotes neuronal death through transposable element dysregulation in neurodegenerative tauopathies. Nat Neurosci. 2018 Aug;21(8):1038-1048. doi: 10.1038/s41593-018-0194-1.


domenica 30 settembre 2018

Senescenza cellulare e senolitici: evidenze precliniche di un’unica terapia efficace nel contrastare la fragilità e numerose altre patologie associate all'invecchiamento.


La senescenza cellulare non è un banale invecchiamento delle cellule. Piuttosto, si tratta di una particolare tipologia di risposta della cellula, indotta da una condizione di stress critica, che consiste nell'arresto definitivo della proliferazione e nella produzione di una serie di segnali chimici nell'ambiente circostante.

Questa risposta si può attivare a seguito dell’accorciamento dei telomeri (senescenza replicativa), di un aumento eccessivo ma “non-letale” di danni ossidativi (senescenza indotta da stress ossidativo), di un aumento di danni al DNA (senescenza indotta da danni al DNA), di un aumento di espressione di oncogeni (senescenza indotta da oncogeni) e a seguito di altri segnali di cui non mi dilungherò a parlare.

Secondo quanto siamo riusciti a comprendere, la senescenza cellulare serve a proteggerci dai tumori, aiuta la riparazione e lo sviluppo dei tessuti e contrasta alcuni tipi di infezioni. In condizioni normali, le cellule senescenti appaiono per un breve periodo di tempo e poi vengono rapidamente rimosse dal sistema immunitario. Tuttavia, se il numero di cellule senescenti aumenta in modo eccessivo in un tessuto, i segnali biochimici generati da queste cellule compromettono la funzione del tessuto, ne accelerano la degenerazione e possono addirittura favorire l’insorgenza di ulteriori tumori. Questo è il fenomeno che osserviamo durante l’invecchiamento o dopo un trattamento intensivo con chemio- o radio-terapia.

Per poter far fronte a questo problema, si sta cercando di sviluppare dei farmaci che sono in grado di eliminare selettivamente le cellule senescenti dai tessuti. Questi farmaci o composti prendono attualmente il nome di “senolitici”. A fine pagina troverete quelli che, secondo me, sono stati i progressi storici più rilevanti finora nello sviluppo dei senolitici. 

Dopo questa breve introduzione all'argomento, vediamo qual'è il vero "focus" di questo post. 
A fine agosto di quest’anno è uscito un interessante lavoro sul tema “senescenza cellulare e senolitici”, pubblicato sulla prestigiosa rivista “Nature Medicine” dal gruppo di James Kirkland  (Mayo Clinic, Rochester, MN, USA), cui hanno partecipato anche numerose altre Università e Istituti degli USA e UK (1).
In questo lavoro è stato dimostrato che la somministrazione di un senolitico (in tal caso il cocktail di dasatinib e quercetina) effettuata una sola volta ogni due settimane, in topi di 24-27 mesi di età (topi di età paragonabile a un uomo di circa 75 anni), rimuove gli effetti deleteri dell’accumulo di cellule senescenti migliorando la funzionalità fisica, contrastando la fragilità e allungando la vita media degli animali del 36% (per un topo di 24 mesi non trattato la sopravvivenza media è di 140 giorni, mentre i topi trattati con senolitici mostravano una sopravvivenza media di 190 giorni). Al contrario, un trapianto di cellule senescenti nei tessuti di topi riduceva la longevità degli animali, quasi come se avvenisse una specie di accelerazione del processo di invecchiamento.
Ma la cosa più interessante di questo lavoro è che l’aumento di longevità dovuto al senolitico e l’accorciamento di longevità dovuto al trapianto di cellule senescenti non sono riconducibili ad un effetto su una singola patologia associata all'invecchiamento. Piuttosto sembra che tutte le patologie età associate vengano ritardate o accelerate se, rispettivamente, si rimuovono o si aumentano le cellule senescenti nei tessuti. Questi risultati rafforzano quindi l’ipotesi che agendo sui meccanismi fondamentali del processo di invecchiamento (come la senescenza cellulare) tutte le patologie età associate vengono ritardate senza che una di esse sia predominante.

Va tenuto in considerazione che sono necessari ulteriori studi preclinici per confermare e studiare eventuali effetti avversi dei senolitici, soprattutto in previsione di un futuro utilizzo nell'uomo. Sono comunque già in fase sperimentale clinica alcuni senolitici per il trattamento di particolari condizioni (quali le disfunzioni renali croniche) che potranno confermarci o meno se questi trattamenti possono essere sicuri e efficaci nell'uomo o se la strada verso la loro eventuale traslazione all'uomo è ancora molto lunga o addirittura impraticabile.

Breve storia dello sviluppo dei senolitici 

1961 – Leonard Hayflick e Paul Moorhead descrivono per la prima volta il fenomeno della senescenza replicativa (2)
1962-2007 – Tantissime scoperte (troppe per elencarle) su come viene indotta la senescenza cellulare, su ciò che producono le cellule senescenti e ulteriori evidenze dell’accumulo di cellule senescenti nell'invecchiamento e nelle patologie età associate
2008 – Aubrey de Grey e Michael Rae propongono, nel loro libro “Ending Aging”, l’idea di sviluppare composti che possano selettivamente eliminare le cellule senescenti per contrastare l’invecchiamento (3).
2011 – Darren Baker e Jan van Deursen (insieme a numerosi altri collaboratori) forniscono la prima dimostrazione che la rimozione di cellule senescenti (effettuata attraverso la creazione di un topo transgenico portatore di un “gene killer” attivabile solo nelle cellule senescenti) rallenta l’invecchiamento in topi affetti da invecchiamento precoce (4)
2013 – Jan Dorr (insieme a numerosi altri collaboratori) dimostra che è possibile eliminare selettivamente alcuni tipi di cellule senescenti agendo con composti che possono interferire sulle loro specifiche alterazioni metaboliche (5)
2015 – Yi Zhu e James Kikland (insieme a numerosi altri collaboratori) identificano alcuni composti (tra cui il mix di dasatinib e quercetina) in grado di uccidere selettivamente le cellule senescenti e coniano per la prima volte il termine “senolitico” (6)
2016 – Darren Baker e Jan van Deursen (insieme a numerosi altri collaboratori) forniscono la dimostrazione che la rimozione di cellule senescenti (sempre con la tecnica del “gene killer” su topo transgenico) allunga la vita in salute anche in topi normali (7)
2016 – Jianhui Chang e Daohong Zhou (insieme a numerosi altri collaboratori) identificano un nuovo composto con azione senolitica (Navitoclax o ABT-263) che attraverso la rimozione delle cellule senescenti sembra in grado di ringiovanire il comparto delle staminali ematopoietiche (8)
2016 – Bennett Childs, Jan van Deursen e Judith Campisi (insieme a numerosi altri collaboratori), attraverso l’utilizzo di particolari topi transgenici (topi p16-3MR, in cui è possibile visualizzare e rimuovere le cellule senescenti) dimostrano che la senescenza cellulare promuove lo sviluppo e la progressione dell’arteriosclerosi, mentre la rimozione delle cellule senescenti è di beneficio a tutti gli stadi della patologia (9).
2017 – Ok Hee Jeon, Judith Campisi e Jennifer Elisseeff (insieme a numerosi altri collaboratori), attraverso l’utilizzo dei topi p16-3MR, dimostrano che la senescenza cellulare promuove l’artrosi e che la rimozione locale delle cellule senescenti può offrire una nuova opportunità terapeutica per questa patologia (10)
2017 - Mikolaj Ogrodnik, Thomas von Zglinicki e Diana Jurk dimostrano che la senescenza cellulare promuove l’accumulo di grasso epatico e la steatosi associata all'invecchiamento e che la rimozione delle cellule senescenti può offrire una nuova opportunità terapeutica per questa patologia (11)
2017 – L’eliminazione delle cellule senescenti attraverso mezzi genetici o farmacologici aiuta a prevenire l’osteoporosi nel topo (12)
2017 – Allo “Scripps Research Institute” (USA) in collaborazione con la Mayo Clinic (USA) viene identificata una nuova classe di senolitici che agisce inibendo proteine coinvolte nella risposta allo stress (13)
2017 – Un gruppo di ricerca a prevalenza olandese identifica una proteina (FOXO4) che interagendo con il p53 impedisce alle cellule senescenti di andare incontro a morte cellulare. I ricercatori hanno anche sviluppato un peptide (FOXO4-DRI) che attraversa la membrana cellulare e impedisce l’interazione tra FOXO4 e p53 risultando nell'induzione di morte cellulare solo nelle cellule senescenti (14).
2018 – Un gruppo di ricerca giapponese rivela che la senescenza cellulare promuove l’enfisema polmonare e che l’eliminazione delle cellule senescenti protegge i topi da questa patologia (15)
2018 – La dimostrazione che il trattamento con senolitici in età avanzata contrasta la fragilità e allunga la vita media dei topi mentre il trapianto di cellule senescenti ottiene effetti opposti (1).
2018 – Alcuni ricercatori della Mayo Clinic, tra i quali Darren Baker, forniscono la prima evidenza che la rimozione delle cellule senescenti in un modello murino di neurodegenerazione (mediato dall'aggregazione della proteina tau, le cui alterazioni sono coinvolte nell'Alzheimer e numerose altre neuropatologie) riduce la patologia e il declino cognitivo (16).

Referenze
1. Xu M, Pirtskhalava T, Farr JN, Weigand BM, Palmer AK, Weivoda MM, Inman CL, Ogrodnik MB, Hachfeld CM, Fraser DG, Onken JL, Johnson KO, Verzosa GC, Langhi LGP, Weigl M, Giorgadze N, LeBrasseur NK, Miller JD, Jurk D, Singh RJ, Allison DB, Ejima K, Hubbard GB, Ikeno Y, Cubro H, Garovic VD, Hou X, Weroha SJ, Robbins PD, Niedernhofer LJ, Khosla S, Tchkonia T, Kirkland JL. Senolytics improve physical function and increase lifespan in old age. Nat Med. 2018;24:1246-1256. doi: 10.1038/s41591-018-0092-9

2. Hayflick L, Moorhead PSS. The serial cultivation of human diploid cell strains. Exp Cell Res. 1961;25:585–621. doi: 10.1016/0014-4827(61)90192-6

3. De Grey ADNJ, Rae M. Ending aging : the rejuvenation breakthroughs that could reverse human aging in our lifetime. St. Martin’s Griffin 2008.

4. Baker DJ, Wijshake T, Tchkonia T, LeBrasseur NK, Childs BG, van de Sluis B, Kirkland JL, van Deursen JM. Clearance of p16Ink4a-positive senescent cells delays ageing-associated disorders. Nature. 2011 Nov 2;479:232-6. doi: 10.1038/nature10600.

5. Dörr JR, Yu Y, Milanovic M, Beuster G, Zasada C, Däbritz JH, Lisec J, Lenze D, Gerhardt A, Schleicher K, Kratzat S, Purfürst B, Walenta S, Mueller-Klieser W, Gräler M, Hummel M, Keller U, Buck AK, Dörken B, Willmitzer L, Reimann M, Kempa S, Lee S, Schmitt CA. Synthetic lethal metabolic targeting of cellular senescence in cancer therapy. Nature. 2013;501:421-5. doi: 10.1038/nature12437.

6. Zhu Y, Tchkonia T, Pirtskhalava T, Gower AC, Ding H, Giorgadze N, Palmer AK, Ikeno Y, Hubbard GB, Lenburg M, O'Hara SP, LaRusso NF, Miller JD, Roos CM, Verzosa GC, LeBrasseur NK, Wren JD, Farr JN, Khosla S, Stout MB, McGowan SJ, Fuhrmann-Stroissnigg H, Gurkar AU, Zhao J, Colangelo D, Dorronsoro A, Ling YY, Barghouthy AS, Navarro DC, Sano T, Robbins PD, Niedernhofer LJ, Kirkland JL. The Achilles' heel of senescent cells: from transcriptome to senolytic drugs. Aging Cell. 2015;14:644-58.

7. Baker DJ, Childs BG, Durik M, Wijers ME, Sieben CJ, Zhong J, Saltness RA, Jeganathan KB, Verzosa GC3, Pezeshki A, Khazaie K, Miller JD, van Deursen JM. Naturally occurring p16(Ink4a)-positive cells shorten healthy lifespan. Nature. 2016;530:184-9. doi: 10.1038/nature16932.

8. Chang J, Wang Y, Shao L, Laberge RM, Demaria M, Campisi J, Janakiraman K, Sharpless NE, Ding S, Feng W, Luo Y, Wang X1,2, Aykin-Burns N, Krager K, Ponnappan U, Hauer-Jensen M, Meng A, Zhou D. Clearance of senescent cells by ABT263 rejuvenates aged hematopoietic stem cells in mice. Nat Med. 2016;22:78-83. doi: 10.1038/nm.4010.

9. Childs BG, Baker DJ, Wijshake T, Conover CA, Campisi J, van Deursen JM.Science. Senescent intimal foam cells are deleterious at all stages of atherosclerosis. 2016;354:472-477. doi: 10.1126/science.aaf6659

10. Jeon OH, Kim C, Laberge RM, Demaria M, Rathod S, Vasserot AP, Chung JW, Kim DH, Poon Y, David N, Baker DJ, van Deursen JM, Campisi J, Elisseeff JH. Local clearance of senescent cells attenuates the development of post-traumatic osteoarthritis and creates a pro-regenerative environment. Nat Med. 2017;23:775-781. doi: 10.1038/nm.4324.

11. Ogrodnik M, Miwa S, Tchkonia T, Tiniakos D, Wilson CL, Lahat A, Day CP, Burt A, Palmer A, Anstee QM, Grellscheid SN, Hoeijmakers JHJ, Barnhoorn S, Mann DA, Bird TG, Vermeij WP, Kirkland JL, Passos JF, von Zglinicki T, Jurk D. Cellular senescence drives age-dependent hepatic steatosis. Nat Commun. 2017;8:15691.

12. Farr JN, Xu M, Weivoda MM, Monroe DG, Fraser DG, Onken JL, Negley BA, Sfeir JG, Ogrodnik MB, Hachfeld CM, LeBrasseur NK, Drake MT, Pignolo RJ, Pirtskhalava T, Tchkonia T, Oursler MJ, Kirkland JL, Khosla S. Targeting cellular senescence prevents age-related bone loss in mice. Nat Med. 2017;23(9):1072-1079. doi: 10.1038/nm.4385.

13. Fuhrmann-Stroissnigg H, Ling YY, Zhao J, McGowan SJ, Zhu Y, Brooks RW, Grassi D, Gregg SQ, Stripay JL, Dorronsoro A, Corbo L, Tang P, Bukata C, Ring N, Giacca M, Li X, Tchkonia T, Kirkland JL, Niedernhofer LJ, Robbins PD. Identification of HSP90 inhibitors as a novel class of senolytics. Nat Commun. 2017 Sep 4;8(1):422. doi: 10.1038/s41467-017-00314-z.

14. Baar MP, Brandt RMC, Putavet DA, Klein JDD, Derks KWJ, Bourgeois BRM, Stryeck S, Rijksen Y, van Willigenburg H, Feijtel DA, van der Pluijm I, Essers J, van Cappellen WA, van IJcken WF, Houtsmuller AB, Pothof J, de Bruin RWF, Madl T, Hoeijmakers JHJ, Campisi J, de Keizer PLJ. Targeted Apoptosis of Senescent Cells Restores Tissue Homeostasis in Response to Chemotoxicity and Aging. Cell. 2017 Mar 23;169(1):132-147.e16. doi: 10.1016/j.cell.2017.02.031.

15. Mikawa R, Suzuki Y, Baskoro H, Kanayama K, Sugimoto K, Sato T, Sugimoto M. Elimination of p19ARF -expressing cells protects against pulmonary emphysema in mice. Aging Cell. 2018 Oct;17(5):e12827. doi: 10.1111/acel.12827.

16. Bussian TJ, Aziz A, Meyer CF, Swenson BL, van Deursen JM, Baker DJ. Clearance of senescent glial cells prevents tau-dependent pathology and cognitive decline. Nature. 2018 Sep 19. doi: 10.1038/s41586-018-0543-y.

martedì 25 settembre 2018

Nozioni di biologia dell'invecchiamento per tutti (Video)



A disposizione di tutti, 3 video che ho realizzato per spiegare in termini molto semplici le nozioni di base della biologia dell'invecchiamento.


Video 1: La definizione di invecchiamento






Video 2: L'invecchiamento in natura









Video 3: I determinanti di invecchiamento



domenica 23 settembre 2018

Una doppia conferma dell’antagonismo pleiotropico da studi di genomica comparativa




Nel 1957, George Christopher Williams, un professore di biologia della “Stony Brook University” di New York (US), propose la teoria dell’antagonismo pleiotropico dell’invecchiamento (1). Questa teoria (che cerca di spiegare come si sia evoluto l’invecchiamento in natura) prevede, in sintesi, che la selezione naturale agisca in modo da favorire l’accumulo di mutazioni che sono dannose in età avanzata (e che quindi favoriscono l’insorgenza di patologie associate all'età) nel caso in cui queste mutazioni possono favorire la nostra vita in età giovanile. Infatti, un gene che causa la morte un individuo in età giovanile viene subito rimosso dalla selezione naturale perché sarà impedito l’accoppiamento di quell'individuo e la trasmissione di quel gene. Al contrario, una mutazione che causa la morte dell’individuo in età avanzata non viene rimosso dalla selezione naturale e l’individuo potrà riprodursi prima di subirne gli effetti e passarla alle successive generazioni. La selezione naturale agirà in modo da favorire la sua trasmissione alle generazioni successive soprattutto nel caso in cui questo stesso gene determina un vantaggio competitivo in età giovanile. Dopo diverse generazioni, il numero di mutazioni che favorisce l’insorgenza di patologie associate all'invecchiamento può quindi accumularsi in modo considerevole. Un esempio di queste mutazioni possono riguardare varianti genetiche che favoriscono la calcificazione ossea e che possono favorire lo sviluppo e aumentare il successo riproduttivo in età giovanile. Infatti, queste varianti possono contribuire alla calcificazione delle arterie e quindi al processo di arteriosclerosi in età avanzata.

Ci sono diverse altre teorie sull'evoluzione dell’invecchiamento ma, per adesso, fermiamoci su questa perché due recenti lavori sembrano confermare la sua rilevanza, quantomeno nei mammiferi.

Il primo di questi studi è stato effettuato sui primati, incluso l’uomo (2). I ricercatori hanno registrato la longevità (intesa da questo punto in poi come massimo di vita raggiungibile) di 17 specie di primati e le hanno messe in relazione a quelle delle loro rispettive famiglie seguendo l’albero filogenetico (un diagramma che permette di ricavare i rapporti di “parentela” tra le specie, ovvero di identificare quali specie sono più “vicine” tra loro). Da queste relazioni hanno identificato 3 specie che presentavano una longevità che si discostava nettamente (in positivo) da quella della media della rispettiva famiglia.
Nella famiglia degli ominidi, che oltre all'uomo include il gorilla, lo scimpanzé e altre specie, la longevità media è di circa 70 anni. La specie che si discostava in modo anomalo da questa media era l’Homo sapiens (ovvero l’uomo, la cui longevità è di 122 anni). In modo analogo, la Macaca mulatta (longevità 40 anni) e la Macaca fascicularis (longevità 39 anni) erano le specie la cui longevità si discostava in modo anomalo da quella della loro famiglia (famiglia dei cercopitecidi, la cui longevità media è di circa 30 anni). I ricercatori hanno quindi identificato 25 mutazioni che intervengono in tutte e tre queste specie ma non nelle altre specie la cui longevità rientrava nella media della rispettiva famiglia. Tutte queste mutazioni riguardano geni (tra cui alcuni già precedentemente associati all'invecchiamento, quali ATG7, MNT, SUPV3L1) coinvolti nella guarigione dalle ferite, nella coagulazione del sangue e in malattie cardiovascolari. È di rilevanza che questi processi presentano un importante carattere pleiotropico. Ad esempio, una migliore capacità di coagulazione del sangue è utile per guarire in fretta dalle ferite, ma espone anche un rischio più alto di malattie cardiovascolari in età avanzata.
Gli stessi ricercatori, hanno anche studiato quali proteine presentano una frequenza di cambiamenti (una velocità evolutiva) che è correlata con dei tratti caratteristici della longevità (quali ad esempio, la massa corporea, l’età della maturità, la lunghezza della gestazione e l’età dello svezzamento). Anche in questo caso, i geni che mostrano le più alte correlazioni tra la loro velocità evolutiva e i tratti che caratterizzano la longevità sono per la maggior parte coinvolti in processi pleiotropici che riguardavano le capacità di crescita, sviluppo e il sistema cardiovascolare.

In pieno accordo con la teoria dell’antagonismo pleiotropico, la conclusione di questo lavoro è che la selezione naturale può aver mantenuto delle variazioni genetiche che contribuiscono allo sviluppo di malattie cardiovascolari in età avanzata a causa dei loro effetti benefici in età giovanile.

Il secondo lavoro che ho preso in considerazione è stato effettuato su diverse specie di roditori particolarmente longevi (3), inclusa la specie “super longeva” di ratto nota come “talpa nuda” (Heterocephalus glaber), con un approccio simile a quello precedente. Per chi non lo sapesse, la longevità della talpa nuda è di 31 anni e si distanzia enormemente dalla longevità di un comune topo (nonostante un peso corporeo simile), la cui longevità è di circa 4 anni. I geni che in base a questo studio caratterizzano le differenze di longevità nei roditori (tra i quali AMHR2, IMP4, MYBPHL, MPZL2, TACC2 ) appaiono coinvolti nella regolazione dei processi di respirazione cellulare e dell’omeostasi dei metalli, nei sistemi di crescita e sviluppo e nell'infiammazione.  Appare, inoltre, dal presente studio che una maggiore longevità nei roditori può essere attribuita a varianti genetiche che sono contrapposte a quelle che promuovono una migliore efficienza nella crescita e nello sviluppo.

Anche questo lavoro, quindi, sembra confermare la teoria dell’antagonismo pleiotropico, suggerendo che variazioni del genoma che favoriscono crescita e sviluppo in età giovanile possono avere un effetto negativo nel corso dell’invecchiamento.

1- Williams GC (1957) Pleiotropy, Natural Selection, and the Evolution of Senescence. Evolution (N Y) 11:398. doi: 10.2307/2406060

2- Muntané G, Farré X, Rodríguez JA, Pegueroles C, Hughes DA, de Magalhães JP, Gabaldón T, Navarro A. Biological Processes Modulating Longevity across Primates: A Phylogenetic Genome-Phenome Analysis. Mol Biol Evol. 2018 Aug 1;35(8):1990-2004. doi: 10.1093/molbev/msy105.

3- Sahm A, Bens M, Szafranski K, Holtze S, Groth M, Görlach M, Calkhoven C, Müller C, Schwab M, Kraus J, Kestler HA, Cellerino A, Burda H, Hildebrandt T, Dammann P, Platzer M. Long-lived rodents reveal signatures of positive selection in genes associated with lifespan. PLoS Genet. 2018 Mar 23;14(3):e1007272. doi: 10.1371/journal.pgen.1007272. eCollection 2018 Mar.

martedì 18 settembre 2018

Cosa hanno in comune le donne e le femmine di orca, beluga, narvalo e di una specie di globicefalo?



La risposta può essere facilmente dedotta dall’immagine, ma mentre ci pensate vi do un suggerimento……ha chiaramente a che fare con l’invecchiamento.

Ebbene, la cosa che hanno in comune è che sono gli unici esseri viventi che entrano in menopausa con l’avanzare dell’età. Prima dell’uscita di un recentissimo articolo 1 si credeva che solo le orche e forse il globicefalo oltre all'uomo avessero questa caratteristica. Per capire l’eccezionalità della cosa basti pensare che nemmeno i topi, né animali molto vicini all'uomo come le scimmie sembra abbiano sviluppato questa particolare cessazione delle capacità riproduttive in natura. Al contrario, la maggior parte delle specie segue un declino graduale di fertilità con l’avanzare dell’età. Qual è la ragione per cui in queste specie gli individui di sesso femminile riescono ad essere così longevi senza essere fertili?

La risposta a questa domanda non è ancora completa. Tuttavia, secondo la maggior parte dei ricercatori l’evoluzione della menopausa è tipica di specie con un particolare comportamento sociale ed è dovuta a due condizioni che sono ben descritte in un articolo uscito circa 3 anni fa 2.

La prima è che la longevità degli individui di sesso femminile non più in grado di riprodursi conferisca un vantaggio allo sviluppo della prole e quindi alla sopravvivenza della specie. L’esperienza e la conoscenza delle nonne può infatti essere utile per favorire l’educazione e il trasferimento delle conoscenze alla prole. Nel caso specifico delle orche, una nonna può quindi essere molto utile ai propri parenti più giovani conoscendo dove e come procacciarsi il cibo, soprattutto in periodi di crisi. E con una durata media e massima della vita di circa 50 e 90 anni è ragionevole pensare che le nonne orche abbiano acquisito una discreta quantità di conoscenze.

La seconda è che la cessazione della fertilità conferisca anch'essa un vantaggio alla sopravvivenza della specie. Riferendoci alle orche, è abitudine comune che i figli crescano e continuino a vivere con le loro madri e le loro nonne, formando così dei gruppi abbastanza numerosi. Se le femmine restassero fertili per tutti i loro anni di vita è ragionevole ipotizzare che il gruppo rischi di diventare troppo numeroso generando competizioni all'interno di esso per potersi procacciare il cibo.

Se vi vengono dubbi è naturale, come anticipato la risposta alla domanda non è ancora completa. Infatti, ci sono anche altre ipotesi  ma lascio alla vostra curiosità lo stimolo di scoprirle 3-5.

1. Ellis S, Franks DW, Nattrass S, Currie TE, Cant MA, Giles D, Balcomb KC, Croft DP. Analyses of ovarian activity reveal repeated evolution of post-reproductive lifespans in toothed whales. Sci Rep. 2018 Aug 27;8(1):12833. doi: 10.1038/s41598-018-31047-8.

2. Croft DP, Brent LJ, Franks DW, Cant MA. The evolution of prolonged life after reproduction. Trends Ecol Evol. 2015 Jul;30(7):407-16. doi: 10.1016/j.tree.2015.04.011.

3. Peccei JS. A critique of the grandmother hypotheses: old and new. Am J Hum Biol. 2001 Jul-Aug;13(4):434-52. DOI: 10.1002/ajhb.1076.

4. Tuljapurkar SD, Puleston CO, Gurven MD. Why men matter: mating patterns drive evolution of human lifespan. PLoS One. 2007 Aug 29;2(8):e785. DOI: 10.1371/journal.pone.0000785.

5. Morton RA, Stone JR, Singh RS. Mate choice and the origin of menopause. PLoS Comput Biol. 2013;9(6):e1003092. doi: 10.1371/journal.pcbi.1003092.